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Quando si mette su un sito bisogna immagazzinare tantissimi dati. Il cloud è una soluzione eccellente, ma quanto è effettivamente sicura? Scopriamolo insieme.
Costruire un sito su Internet per allargare i propri orizzonti commerciali significa, oltre a organizzare redazione e immissione costante di materiali originali che risultino interessanti per coloro che gravitano attorno al settore nel quale operate (e che quindi sono vostri potenziali clienti), essere pronti a catalogare un bel po’ di roba, che va conservata ed e è soggetta a uno stoccaggio virtuale. Il cloud è una delle invenzioni più utili in questo senso, dato che permette di conservare una mole impressionante di dati senza occupare il vostro spazio.
Una risorsa preziosa, certo, però alquanto esposta. Infatti non capita di rado di sentir dire di furti di codici, di password, di testi, di immagini, soprattutto inerenti a gente famosa o ad affari delicati. La violazione della privacy è un flagello che purtroppo bisogna calcolare e al quale è importante far fronte risolutamente. Tra l’altro, qualora si verifichino danni del genere, legati quindi ad azioni informatiche di pirateria, non è nemmeno facile ottenere rimborsi, poiché le sedi dei providers sono usualmente lontane rispetto a dove risiedono gli utenti. Insomma, una complicazione burocratica che peggiora le cose. Per quanto riguarda HML.it, la proposta è appunto il server backup o storage, che permette di accumulare e ripristinare moltissimi file.
Nel caso specifico, esistono tre “misure” che l’utente può scegliere in base alle proprie esigenze, tutte ad attivazione immediata e con assistenza clienti garantita. La taglia “small” prevede uno spazio sul disco di mezzo terabyte, una ram di 512 megabyte e una banda di 2 terabyte. Quantità raddoppiate per l’offerta “medium” e addirittura quadruplicate per quella “large”. I prezzi, intesi per una durata semestrale del servizio, sono rispettivamente di 23,94 €, 47,94 € e 89,94 €.
Illustrato l’argomento server backup, torniamo alle dotazioni generali. I nomi affermatisi in questo campo si riducono a un nugolo, ma sono alquanto solidi. C’è Dropbox, anzitutto, però sono piuttosto noti pure iCloud, OneDrive e Google Drive. Non si tratta, come si accennava, di sistemi infallibili, tuttavia è possibile renderli in qualche modo meno penetrabili. Il metodo migliore, quando si ricorre a uno di questi marchi, è assegnare una parola d’accesso non esattamente semplice, composta da lettere minuscole e maiuscole e che non lesini nemmeno in numeri o caratteri speciali. Un’accortezza che non risolve ogni problema, ma che per alcuni versi contribuisce almeno a difendersi dalle ingerenze degli hackers.
D’altronde, l’impermeabilità a questi ultimi dipende pure dalle precauzioni messe in campo da chi gestisce l’“ombrello” sotto il quale vi riparate. In secondo luogo è opportuno informarsi bene sulla durata della conservazione dei dati che affidate a tali operatori. Spesso essa, al di là delle attenzioni e delle cure promesse, per contratto prosegue anche dopo la scadenza dei termini o del rapporto. Perciò è opportuno ribadirlo: è fondamentale scegliere delle passwords complesse, in particolare nell’eventualità in cui si ricorra a più di un servizio afferente alla medesima azienda. Insomma, non esiste l’inviolabilità assoluta; bisogna semplicemente soffermarsi su quanti e quali “lucchetti” ci sono.
Ci sono alternative, dunque? Una apparentemente degna di nota riguarda il protocollo chiamato “Zero Knowledge”, applicato da qualche fornitore. In sintesi, si tratta di un tipo di “contenitore” che custodisce elementi che rimangono ignoti perfino a chi ve lo noleggia. Ciò è realizzabile per mezzo di un processo che crittografa i dati in questione: solo il cliente potrà riconvertirli tramite un suo codice. Praticamente, un sistema univoco. L’unico vero inconveniente percettibile è che tale strada è intrapresa perlopiù all’estero, perciò è difficile trovare aziende del ramo che ne descrivano i termini in italiano. Incorrere in qualche pur minima incomprensione è da mettere in conto, principalmente per gli imprenditori “vecchia maniera” che non hanno grande dimestichezza con l’inglese. Per il resto, non ci sono differenze apprezzabili con altri protocolli.
Ce ne sono che consentono la registrazione gratuita, attraverso l’inserimento di un indirizzo di posta elettronica. Uno di questi è Spideroak, 2 gigabyte di spazio (ma pagando si può arrivare fino a 100) e possibilità di accesso mediante tutti dispositivi, mobili o fissi che siano. Poi si può citare Cloud Mega, che offre gratuitamente 50 megabyte (o di più, ma c’è un costo pure in questo caso), che ha guadagnato una buona fama in fatto di sicurezza. Infine, al posto di Wuala, chiuso di recente, si profila lo svizzero Tresorit, fattosi notare (oltre che per i 5 megabyte che dona all’atto dell’iscrizione) per aver indetto un concorso (50.000 $ in palio) fra esperti di computer, sfidati a violare il suo sistema. 900 di loro non ci sono ancora riusciti.